Milano Pride 2019: la prima volta fu rivolta

Milano Pride 2019: la prima volta fu rivolta

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ArciLesbica Zami partecipa al Pride di Milano ma non ne sostiene il Manifesto Politico, un manifesto dove le parole lesbica e lesbofobia non compaiono MAI. Questo è un manifesto che non tiene conto delle donne.

Vi leggiamo che “l’identità di genere fa capo ad un diritto inalienabile della persona”. Chiariamo: il sesso biologico con cui nasciamo non è un diritto né una discriminazione, ma un dato di realtà. Sulla base del sesso biologico la società impone a ciascuna/o di noi uno dei due generi, ovvero un insieme di caratteristiche stabilite culturalmente e variabili da società a società, ma sempre, data l’universalità del patriarcato, sfavorevoli alle donne.

Nel mondo una donna su tre subisce violenza fisica nel corso della sua vita, più di un quarto delle bambine è vittima di matrimonio forzato, a circa due terzi delle donne si nega il diritto all’istruzione e più di 125 milioni di bambine e donne hanno subito mutilazioni genitali (The World’s Women, ONU, 2015). Questi dati sono indici di una vessazione che non viene alterata dalla dichiarazione personale di essere non-binary e gender fluid. E’ necessaria una lotta contro i generi, ma prima di tutto è necessaria una lotta collettiva per un cambiamento delle condizioni materiali di vita, sostenendo l’autonomia economica e culturale delle donne.

Nel manifesto si dice che “i soggetti principalmente interessati da questa lotta [contro quello che viene chiamato il binarismo di genere] sono le persone transgender e le persone intersex”. Sosteniamo senza riserve la richiesta delle persone intersessuali di non subire interventi invasivi senza consenso, ma non solo loro sono gli interessati alla lotta contro l’oppressione dei generi: metà della popolazione mondiale, le donne, hanno un interesse primario a che gli stereotipi di genere siano superati e, con essi, l’oppressione patriarcale che li ha creati.

Infine troviamo, per la prima volta nei manifesti del Pride milanese, la rivendicazione dell’utero in affitto. Sappiamo che lesbiche e gay possono essere genitori, buoni né più né meno degli eterosessuali. Questo però non implica il diritto a diventare genitori. Se questo diritto esistesse ci sarebbe qualcuno/a che ha il dovere di corrispondere a tale richiesta: al diritto di diventare genitori per eterosessuali con problemi di sterilità e per omosessuali corrisponderebbe il dovere di certe donne di mettere a disposizione il loro corpo come materia prima e come incubatrice per far venire al mondo le bambine e i bambini richiesti.

Le donne invece non sono a disposizione di nessuno e il corpo delle donne non è un posto di lavoro. La nostra autodeterminazione cresce quanto più riusciamo ad essere un soggetto collettivo coeso, seppure plurale, e quanto più sottraiamo i nostri corpi e le nostre relazioni al mercato. L’utero in affitto e la “donazione” degli ovociti non è autodeterminazione, non è un dono, non è un lavoro. Esattamente come la prostituzione non è autodeterminazione, non è godimento e non è un lavoro come un altro. Sono mettere sul mercato la nostra stessa carne e vita. Soltanto una visione distorta della realtà e della storia (quella storia di rivolta che ci ha visto affermare “l’utero è mio e lo gestisco io” – non “lo affitto io”) può far pensare che l’utero in affitto e la prostituzione siano autodeterminazione invece che abuso e che acquistare uteri e vagine sia un diritto indiscutibile degli uomini.

Il movimento lgbt ha avuto il coraggio di guardare in faccia alla discriminazione senza abbassare gli occhi. Ha elaborato un pensiero critico della sessualità e della società eteropatriarcale, ha saputo portare in piazza fasce sempre più ampie di popolazione. Ha tutti gli strumenti per capire la differenza fra libertà e libero mercato, fra autodeterminazione e sfruttamento. Saprà leggere fra le righe dei contratti che sono imposti alla “libera” firma delle donne e capire che la dignità delle nostre vite e l’integrità dei nostri corpi non possono essere oggetto di commercio.

La libertà delle donne è la responsabile costruzione di una civiltà più giusta. Non siamo mai state e non vogliamo diventare il popolo delle libertà. Siamo ancora in rivolta.